domenica 12 luglio 2009

La cultura, l’io e l’odio razziale

Di solito si sente dire che il razzismo nasce e si alimenta grazie alla paura che l’uomo nutre per alcune cose il più delle volte immateriali e non facilmente distinguibili.
Ad essere al centro dell’attenzione ci può essere la paura del diverso da sé, la paura della crisi economica, la paura di rimanere senza lavoro, di rimanere soli o più semplicemente la paura dei cambiamenti.
Colui che non ha paura è spesso colui che conosce o ha conosciuto mondi e culture diverse, senza alcun pregiudizio di qualsivoglia natura (politico, religioso ecc.).
Allora è necessario chiedersi come si può non aver paura e conoscere tante civiltà senza doversi per forza spostare dal proprio paese, senza doversi allontanare dai propri amici, o dai propri familiari.
Una delle risposte è rappresentata dalla cultura.
Ebbene sì. La cultura è l’unica cosa che ti può aprire gli occhi senza che tu ti senta spaesato. È l’unica cosa che ti può far sentire a tuo agio in molteplici situazioni, ovunque ti trovi e con chiunque tu sia. Un libro aperto, nel quale seguire le peregrinazioni di un personaggio, o le gesta di un eroe, o le disavventure di una persona qualunque, o l’immagine della propria vita, è come avere davanti mille mondi diversi e viverne ognuno in modo differente. E con una vita così, a leggere, a conoscere, il diverso, come si può averne paura, tanto da arrivare a provare odio?
L’uomo colto si nutre del “nuovo” e si annoia nel vivere sempre le stesse cose, perciò gli è necessario essere sempre al confine, ai limiti. Il suo unico piacere è quello della scoperta, della scoperta del sé innanzitutto e poi dell’altro.
Dunque quando si sente dire che la cultura non serve a niente, è bene prima di parlare riflettere un po’. La cultura è sicuramente un bene immateriale, ma è il bene che meglio ti fa apprezzare e disprezzare le cose reali. Senza una reale consapevolezza di ciò che si ha e di ciò che si è, non si raggiunge una reale felicità. Che poi non è altro che star bene con se stessi.

GIANNI CRISCIONE

lunedì 6 luglio 2009

IMMIGRAZIONI: QUESTIONI PERSONALI

Vediamo sempre più spesso immigrati che si aggirano non solo nelle nostre campagne, ma anche nel centro cittadino.
Con alcuni abbiamo familiarizzato, con altri meno, altri ancora facciamo finta non esistono proprio.
Leggiamo ultimamente anche dell’intensificarsi del controllo sui documenti dei “migranti” e la relativa espulsione dal “nostro” (di chi veramente?) territorio.
Poiché Vitulazio, checché se ne dica, vive ancora di molta agricoltura, è necessario che qualcuno spieghi che coloro i quali lavorano “la terra” (il 99% immigrati clandestini) sono essenziali e che la loro assenza costituirebbe un danno economico non indifferente. Chi li sostituirebbe?
Se a ciò aggiungiamo un altro ambito di lavoro pressoché “egemonizzato” da immigrati, anzi immigrate, la badante, dobbiamo fare un grosso sforzo per riuscire a capire perché queste persone dovrebbero essere dannose per il nostro tessuto sociale e imprenditoriale.
Questi “pericolosi” lavoratori, non ci sembrano poi così tanto dannosi.
Va fatta poi una ulteriore considerazione. Se queste persone lavorano, significa che qualcuno dà loro lavoro. E allora chi veramente dev’essere espulso? Colui che lavora o colui che ne sfrutta il lavoro?
Insomma ci sembra che dietro il problema dell’immigrazione, che indubbiamente c’è, si nascondano molte preconcetti idealistici che si vogliono identificare con questo o con quel partito politico, senza andare ad approfondire concretamente ciò di cui si sta parlando.
La cosa bella è che in Italia, nell’ultimo anno in cui si sono accettate le richieste di stranieri che volevano essere regolarizzati, si è verificato che i richiedenti asilo sono in numero enormemente maggiore rispetto alla quota stabilita. Ciò ha un duplice significato. Da un lato significa che le questure sanno già quanti immigrati clandestini ci sono in Italia e dove lavorano (almeno quelli che hanno fatto domanda), quindi se volessero espellerli le forze dell’ordine non avrebbero alcuna difficoltà.
Dall’altro lato però è evidente che tale gestione dell’immigrazione è quantomeno ingannevole. Se il numero di immigrati che può entrare in Italia viene stabilito in base alla quantità di lavoro disponibile in Italia, è evidente, forse troppo, che colori i quali già lavorano dovrebbero ottenere d’ufficio il permesso di soggiorno. Loro già lavorano, i fatti dimostrano che non sono in soprannumero.
E allora perché non regolarizzarli? Perché continuare a tenerli da parte? Non essendo in regola, l’immigrato non si sentirà mai a casa sua. E allora come si può amalgamare a noi?
Faccio una domanda alla quale spero che qualche immigrato vitulatino possa rispondere. Come si sentiva quando era un immigrato, probabilmente poverissimo, a migliaia e migliaia di chilometri di distanza dal tanto amato Cavaiuolo?Lei si sentiva come una “forza lavoro” o era semplicemente una persona in cerca di una vita migliore?
Perciò non è il caso di parlare di persone, piuttosto che di “quote”? Non è il caso di parlare di sentimenti, piuttosto che di forza lavoro?

GIANNI CRISCIONE PER ONDA SANA